Tutto è iniziato con dei crampi. “Avrò mangiato qualcosa che mi ha fatto male ieri sera” ho pensato, come succede a tutti. Qualche mese dopo, ancora. Da una volta ogni tanto quei “crampi” hanno cominciato ad arrivare sempre più spesso. Le prime visite dai dottori, di cui la prima, ricordo ancora, era con un gastroenterolgo sì, ma pediatra. Quasi rido, perché ero ancora una bambina, avevo solo 17 anni. Così ho provato non so quante medicine, e intanto gastroscopia e colonscopia.
Nel giro di poco tempo, quei crampi erano andati peggiorando, si erano trasformati in crisi continue. Mi fecero andare a Milano, al Policlinico. Per un anno, lo specialista mi fece fare tac, risonanze e provare non so quante altre medicine. Questa sarà la volta giusta mi dicevo, ma cominciavo a capire la triste verità: nessuna pillolina magica sarebbe arrivata, se non avessero capito il problema. Le mie condizioni peggioravano, soprattutto dopo avermi fatto seguire varie diete (presupposta intolleranza al lattosio e mille altre cose). Arrivò così il primo ricovero. Settimane in cui mi rivoltarono come un calzino e il risultato fu: non abbiamo trovato nulla, quindi è un problema psicologico. Certo, i problemi di pancia sono sempre psicologici, soprattutto se non si capisce cosa è.
[su_pullquote align=”right”]Quel dottore semplicemente mi ascoltò![/su_pullquote]
Passati due anni, durante una visita, incontrai un semplice chirurgo generale. Quel dottore mi chiese perché ero li. Di raccontargli la mia storia. Non volle dare un nome ai miei sintomi, ma capire quali davvero erano e cosa mi provocavano. A quel dottore non poteva sembrare possibile, ma ipotizzò che potessi avere un tipo di problema, che ancora non avevano considerato. Ci vollero ancora tanti anni, tanti trattamenti, perché si capisse qualcosa in più, ma tutto è successo solo grazie a quel dottore, che mi fece fare quell’esame e mi consigliò di andare dal medico che, forse, ad oggi, mi ha salvato la vita.
Tutta la mia vita era cambiata: non potevo più lavorare d’estate e nei weekend per guadagnarmi i miei soldini; non potevo più andare più andare a Scout, anche se non smettevo di “essere” una scout; riuscire a diplomarmi fu un’estenuante lotta durata anni, stracolma di difficoltà, un orizzonte che sembrava così lontano, ma che sono riuscita a raggiungere, lottando con un’intensità inaudita; il ragazzo che mi era stato affianco, come neanche mia madre era stata capace di fare, cominciava a non riuscire più a vedere “la Bea”. I miei sogni andarono ad infrangersi uno alla volta, ne è rimasto solo uno in cui non ho mai smesso di sperare: una vita “normale”, una famiglia, dei figli, un lavoro che mi permetta di mangiare.
Come potevo non lamentarmi? Mi faceva male! Mi arrabbiavo, piangevo, urlavo. Gli altri non capivano.
La gente, i conoscenti, mi guardavano e pensavano di sapere tutto. Che altri potessero pensare che fossi anoressica, o altro, non mi interessava, ma che i miei stessi familiari mi facessero sentire abbandonata, fuori casa, in mezzo alla folla, non me lo sarei aspettata. Buttavo tutto fuori, solo perché cercavo di capire cosa mi stesse succedendo dentro. Quella che più dovette affrontare tutto questo fu mia madre, che però, non riuscì mai a capire di cosa io avessi bisogno, mentre cercava di darmi ciò di cui lei credeva io avessi bisogno. Incominciai a capire che, se non volevo allontanare tutti, dovevo tenermi tutto dentro. Mi resi conto che tutti hanno i loro problemi, che i miei non erano più importanti, perché per ognuno lo sono i propri. Mi sentivo in colpa, perché vedevo, negli occhi delle persone che mi amavano, la sofferenza del vedermi stare male, ma del non poter fare nulla per aiutarmi. Cominciai a capire che dovevo lottare contro me stessa, che il mio corpo non rappresentava più la persona che ero “dentro”, ma che dovevo cercare di non farlo pesare agli altri. [su_pullquote align=”right”] Se soffrivo io, perché dovevano farlo anche gli altri? Di certo questo non avrebbe fatto soffrire meno me, anzi. [/su_pullquote]
Ogni tanto mi permettevo dei momenti di sfogo, anche con gli altri, ma solo quando crollavo. Non uscivo quasi più, forse un’oretta ogni due settimane, giusto perché ero riuscita a prendere la patente e, quindi, potevo organizzarmi per uscire vicino, così, se stavo male, potevo correre a casa. La vita degli altri andava avanti, la mia mi sfuggiva di mano e ogni piccola cosa diventava un’impresa, anche solo alzarsi dal letto senza svenire era una vittoria, come non collassare sul gabinetto. Un unico bagno in casa è davvero un problema, che crea abissi irrisolvibili quando cominci a passarci ore e ore piegata in due e gli altri componenti della famiglia, presi dalla quotidianità, ti insultano. Loro si dimenticano che tu sei alle prese con un dolore che ti toglie il fiato e alza il battiti del cuore fino a sentirtelo scoppiare, perché tanto sono abituati al fatto che tu stia male, peccato che a quel dolore, non ci si possa abituare mai. Avevo smesso di vivere è vero. Ma non mi sono mai arresa. Non pregavo più di guarire, ma di avere le forze di affrontare le cose, quel dolore, la forza per non deludere ancora gli altri mancando ad un impegno. Ce la mettevo tutta, ma tutto mi si rivoltava contro, per quanto mi impegnassi, nulla cambiava, ero sempre bloccata allo stesso punto.
Quando smetti di vivere, ti rendi conto per cosa vale davvero la pena vivere.
Incominciai ad organizzarmi. Quella era la chiave per tutto. Incominciai a portarmi un kit di emergenza dovunque andassi e ad uscire, solo se avevo un punto di riferimento vicino e se avevo la mia macchina. Non potevo più fare la vita di prima, ma la domanda era: cosa potevo ancora fare? Gli imprevisti c’erano sempre, certo. Le crisi improvvise, quelle non si possono controllare. Ma incominciai ad imparare a convivere con il dolore cronico, il mio compagno di vita, sempre presente, incominciai ad imparare a gestirlo. Dopo aver scoperto che nessun farmaco al mondo poteva darmi neanche un secondo di sollievo, imparai a controllare il dolore. Non quello delle crisi, quello è incontrollabile, ma imparai a gestirlo almeno un po’, con dei miei stratagemmi mentali. Dopo ore e ore e ore di dolore inimmaginabile, è proprio il dolore che ti tiene sveglia, quando non hai più un briciolo di forze. Spesso mi è capitato, seduta sul gabinetto, di essere talmente debole da non essere più lucida, e vedermi dall’alto come in una specie di astrazione. [su_pullquote align=”left”]In quei momenti, bisogna aggrapparsi alla realtà in ogni modo e, infondo, se sentivo “quel dolore”, voleva dire che ero ancora viva.[/su_pullquote]
Trovai i miei stratagemmi, i miei piccoli escamotage, che mi permettessero di muovermi “in sicurezza” e di incominciare a fare piccole cose. Il senso di tutto era arrivare a fine giornata avendo vissuto, avendo fatto tutto il possibile, non essendo solo sopravvissuta facendomi scivolare la vita addosso. Perché io volevo vivere, e questo non è così scontato, quando non ti rimane più nulla.
Arrivarono le operazioni. Non credevo più che sarei guarita, ma almeno che sarei migliorata di quel poco che mi avrebbe permesso l’autosufficienza, perché a 21 anni non è bello dipendere dagli altri e farsi mantenere. Soprattutto speravo che il dolore sarebbe almeno un pochino diminuito, che avrei avuto qualche “pausa”, ogni tanto, che mi permettesse di ricaricare le pile. Avevano più o meno capito il problema, anche se non c’era un nome della malattia, era il cervello che non faceva funzionare correttamente l’intestino. Così mi feci impiantare dei neuromodulatori nella spina dorsale, perché controllassero il dolore cronico e facessero arrivare il giusto “ordine” all’intestino. Per logica, era la cosa giusta da fare. 8 operazioni in 2 anni. Era necessario che io fossi sveglia mentre impiantavano gli elettrodi ma, su di me, le anestesie non funzionano. Affrontai quelle operazioni a “mente sana”, tagliata e aperta fino alla spina dorsale sentendo tutto, era come una tortura cinese, una cosa che non si può descrivere. La prima volta non lo sapevo, le altre 7 fanno capire fin dove arrivasse la mia voglia di vivere. Le prime tre andarono “bene”, ma non diedero i risultati sperati. La quarta fu per cambiare “la batteria”, durata solo 8 mesi, e fare un altro tentativo. Le ultime tre furono per cercare di salvarmi la vita. Così mi ritrovai, non solo con i problemi che già avevo prima, di per se impossibili, ma con anche le conseguenze dovute agli interventi (perdita di liquor e meningite). Sempre più debilitata, sempre più debole e stanca, con lo stesso dolore, ma con sempre più voglia di vivere.
Dove non arriva la medicina, arrivano la fede e soprattutto la forza di volontà, ovviamente con i miei tempi.
Dopo le prime 3 operazioni, ho deciso di iniziare l’università. Così ho iniziato e per me era un’opportunità incredibile, un dono. Mia madre ha fatto grandi sacrifici per affittare una stanza, con un bagno solo per me, in un appartamento vicino all’università, in modo da potermi veramente permettere di andarci, perché se anche stavo male, dovevo letteralmente attraversare la strada. Appena iniziato ho capito che era quello che volevo. L’educatrice era esattamente il lavoro che rappresentava Me. La Vera me, quella dentro. Tutti i cambiamenti avuti, le decisioni prese, tutto ciò che ero diventata si concretizzava in quel percorso di studi. Non sapevo se avrei mai potuto farlo davvero come lavoro, ma sapevo che era esattamente ciò che avrei voluto fare, per arrivare a fine giornata avendo davvero fatto qualcosa “per cui ne vale la pena”, soprattutto se questa persona che sono diventata potrà essere d’aiuto affinché qualcun altro possa fare il suo percorso di cambiamento. Era stupendo, ma è stata una sfida continua. Ogni ora che sono riuscita ad andare, ogni pagina che ho studiato, ogni esame che ho dato, ogni giorno, è stata una sfida continua. Ho dormito qualche ora a notte, resistendo e cercando di studiare tra una crisi e l’altra. Ho dato tutto il mio impegno e tutta me stessa e sto continuando a farlo. A volte svieni, a volte collassi semplicemente a letto e non hai neanche le forze per capire dove sei o come ti chiami, ma ogni piccolissima vittoria, diventa un’enorme soddisfazione. Ho perso tanto, ho dato tanto, ho trovato tanto.
Beatrice, malattia rara.
Guardare dentro agli occhi, ascoltare le parole, vedere le cicatrici, sentire le stesse vibrazioni, percepire lo stesso dolore, le stesse sensazioni, gli stessi sentimenti. Ritrarre la luce negli occhi di chi ho davanti significa voler ritrarre la forza e l’amore per la vita, la stessa che sento dentro di me, dopo essere stata avvolta dal buio di qualche anno fa.
Chiara DeMarchi