Me la ricordo bene, quella cena aziendale del 23 dicembre 2005. Fino ad allora, la mia vita era stata la vita di una ventenne, come tante: un compagno, un lavoro, una famiglia normale, le solite paranoie. Poi, due giorni prima di Natale, durante la cena inizio ad accusare dei forti dolori all’addome, che in poche ore si trasformano in fitte insopportabili. Al pronto soccorso mi diagnosticano un’appendicite acuta, da rimuovere immediatamente, e nel giro di poche ore sono sotto ai ferri. Al mio risveglio, è tutto diverso. Come succede a molti con la nostra patologia, la diagnosi iniziale era sbagliata: i dottori mi dicono che non si trattava di appendicite, ma che con molta probabilità avevo il morbo di Crohn. Non avevo idea di cosa significasse, mi spiegarono molte cose ma l’unica frase che mi girava in testa e mi impediva di ascoltare altro era una:
Mi spiace, ma è una malattia non curabile.
Non esiste sentenza peggiore, per una ragazza di 20 anni con la testa piena di progetti e tutto il futuro davanti a sé.
Il vero calvario doveva ancora iniziare. Avevo una fistola nell’addome che avevo imparato a medicarmi da sola: per 3 mesi mi sono portata addosso questa ferita aperta, grande come un pugno, causata dal taglio che proprio non ne voleva sapere di guarire. [su_pullquote align=”right”]Ho perso il lavoro. Ho perso amicizie che non hanno capito il disagio e il dolore che si porta dentro (e non mi riferisco solo a quello fisico), vedendo il proprio giovane corpo pieno di tagli e di ferite, e sapendo che non tornerà mai più come prima.[/su_pullquote]Poi finalmente sono capitata in un ospedale dove mi ha accolto quello che ora è il mio dottore, una persona splendida ed umana oltre che un professionista, capace di comprendere fino in fondo la mia silenziosa sofferenza. Mi hanno tolto 30 cm di intestino ma da allora, tra alti e bassi, sono rinata.
Sì, perché la vita di chi ha il morbo di Crohn non può che essere così, una vita in chiaroscuro fatta di periodi di buio pesto e periodi di luce dove quasi ci si dimentica tutto, fatta di esami invasivi, corse in bagno e di dolori lancinanti così difficili da spiegare, così difficili da accettare.
Le persone che dovevano esserci durante questo faticoso viaggio – la mia famiglia, il mio compagno – ci sono sempre state e sono rimaste: e senza di loro sarebbe stato tutto molto più difficile, forse impossibile da sopportare. Certo, anche i segni sono rimasti e il mio corpo mi ricorda ogni giorno una sofferenza che purtroppo non terminerà mai fino in fondo. Ma come ricordo gli occhi delle persone posarsi sulle mie cicatrici, ricordo il momento in cui l’imbarazzo ha lasciato il posto a un profondo senso di stima verso me stessa mentre lo facevano, finalmente consapevole che quelle cicatrici erano il segno tangibile che ce l’avevo fatta, e che ero diventata una guerriera.
Ora ne vado fiera, voglio che tutti vedano quanto sono stata forte, voglio che chi ancora non ha superato il momento più difficile possa ritrovare fiducia nel futuro, e penso che il mio esempio possa servire anche a quelle persone che ogni giorno si lamentano per nulla e non si sforzano di combattere piccole o grandi sfortune.
Come me, ci sono tante persone che affrontano dignitosamente e in silenzio il proprio percorso di malattia, costrette spesso ad avere a che fare con chi non sa, o non capisce: e crede che soffriamo “solo” di un po’ di mal di pancia, ignorando che con queste malattie invisibili si lotta ogni santo giorno, solo per avere un po’ di sollievo dal male che ci attanaglia le viscere.
Ora guardo al mio futuro con occhi diversi, sono passati dieci anni e sono cresciuta anche grazie a quello che mi è successo: sono consapevole che da un momento all’altro il mostro potrebbe riattivarsi, ma so anche che sicuramente non mollerò, terrò duro e stringerò i denti.
Vincerò io, sempre e comunque.
Consuelo, colite ulcerosa